SULL’INCOMPETENZA REGIONALE A DISPORRE L’OBBLIGO DI VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE

Il TAR Calabria, con la sentenza 15 settembre 2020, n. 1462, annulla l’ordinanza con cui la Regione Calabria ha disposto l’obbligo di vaccinazione antinfluenzale per certe categorie di persone. In particolare, il Collegio, precisato che è compito del legislatore scegliere le modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo (nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo) e che questa discrezionalità legislativa deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte, e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia), rileva l’incompetenza dell’ente regionale a decidere dei trattamenti sanitari obbligatori, quale l’obbligo di vaccinazione antinfluenzale: essi, infatti, afferma, sono coperti da riserva di legge statale, alla stregua dell’art. 32, comma 2 Cst., letto in combinazione con l’art. 3 Cost., e l’art. 117, comma 3, Cost.

La riserva statale, afferma la sentenza, è connessa al principio di eguaglianza previsto dall’art. 3 Cost.: infatti, il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica deve essere garantito in condizione di eguaglianza in tutto il paese, attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale. Tale principio vale non solo per le scelte dirette a limitare o a vietare determinate terapie o trattamenti sanitari, ma anche per l’imposizione di altri.

Il Collegio ricorda inoltre che, come ribadito più volte dalla Corte costituzionale, la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost., se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.

Invero, il TAR ritiene che il provvedimento non sia stato emesso in assenza assoluta di attribuzione, come invece denunciato dal ricorrente: esso, infatti, precisa, è volto alla tutela della sanità pubblica, a cui sono finalizzati i poteri che l’art. 32, comma 3 l. 23 dicembre 1978, n. 822, attribuisce alla Regione. Dunque, non manca in assoluto una norma attributiva di poteri in materia, ma ci si trova al cospetto di un cattivo/uno scorretto uso del potere, che non tenendo conto della riserva di legge statale che copre i trattamenti sanitari obbligatori.

Sul piano processuale, il TAR precisa che benché parte ricorrente abbia dedotto il vizio al fine di ottenere una pronuncia declaratoria di nullità dell’atto, ben può il Collegio adottare una pronuncia demolitoria, riscontrando un vizio che genera l’annullabilità del provvedimento. Infatti, nel processo amministrativo trova applicazione il principio giurisprudenziale per il quale spetta al giudice la qualificazione giuridica dell’azione proposta al suo esame, potendo egli anche attribuire al rapporto giuridico dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, purché non venga sostituita la domanda giudiziale modificandone i fatti o fondandosi su una realtà fattuale diversa da quella allegata in giudizio.

D’altro canto, il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, codificato dall’art. 112 c.p.c., comporta il divieto di attribuire un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ed è da ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell’azione, cioè il petitum e la causa petendi, attribuendo quindi un bene della vita diverso da quello richiesto, ovvero ponga a fondamento della propria decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere, ma non anche quando procede alla qualificazione giuridica dei fatti e della domanda giudiziale ovvero alla sua interpretazione.

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