L’INTERVENTO DEL TAR FRIULI SULLA LEGITTIMITA’ DELL’OBBLIGO VACCINALE PER GLI OPERATORI SANITARI

TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10 settembre 2021, n. 261

Il caso. Nei confronti di un’operatrice sanitaria in regime di libera professione veniva adottato da un’Azienda sanitaria un provvedimento di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 di cui all’art. 4 del d.l. 44 del 2021 (convertito in legge n. 76 del 2021). L’operatrice proponeva quindi ricorso dinanzi al giudice amministrativo, lamentando l’illegittimità del provvedimento adottato nei suoi confronti sotto molteplici profili.

Le doglianze della ricorrente. Nell’impugnativa si contestava, per quel che qui rileva, il contrasto con la Carta costituzionale della disposizione attributiva del potere (art. 4 del d.l. 44/2020); la ricorrente sviluppava la doglianza sotto diversi aspetti. In primo luogo, sosteneva che la scelta vaccinale dovesse essere collocata in una dimensione strettamente personale non coercibile, essendo questa priva di qualsivoglia rilievo pubblicistico; nel contempo sosteneva che, essendo i vaccini disponibili volti a prevenire lo sviluppo della malattia e non la diffusione dell’infezione, non potesse nella fattispecie configurarsi alcuna violazione della normativa di riferimento, volta, per l’appunto, ad evitare il contagio da SARS-CoV-2. A suffragio della propria tesi e al fine di dimostrare la limitata efficacia dei vaccini, peraltro, la ricorrente depositava un’ingente mole di articoli giornalistici.

Sotto concorrente profilo, la ricorrente sosteneva che i vaccini dovessero essere considerati come farmaci “sperimentali” e che, conseguentemente, l’imposizione di un trattamento sanitario sperimentale comportasse un’aperta violazione del diritto alla salute sancito sia dal diritto interno, sia da quello sovranazionale. Il menzionato carattere meramente sperimentale dei vaccini, secondo la ricorrente, sarebbe altresì stato rappresentato dall’introduzione da parte del legislatore del cd “scudo penale” nei confronti degli operatori sanitari somministranti dall’art. 3 del d.l. 44 del 2021.

Inoltre, la ricorrente lamentava la violazione del principio di ragionevolezza della richiamata norma attributiva del potere, laddove comminava la sospensione del diritto alla retribuzione e di ogni altro emolumento in caso di mancata sottoposizione dell’operatore sanitario al trattamento vaccinale.

La soluzione del TAR Friuli. Il giudice di prime cure ha ritenuto il ricorso infondato nel merito, sottolineando l’infondatezza di tutte le doglianze sollevate.

In primo luogo, il Collegio ha ritenuto di non poter prendere in considerazione l’ingente mole di documenti depositati dalla ricorrente. Ciò in quanto, ad avviso del TAR, nell’ambito di una disciplina caratterizzata da un ineliminabile margine di incertezza, «il giudice non può essere chiamato a “pesare” e valutare ogni singola opinione o fonte informativa, né avrebbe il potere e la competenza per farlo, ma deve fondare il proprio convincimento sulle informazioni ufficiali, veicolate dalle competenti autorità pubbliche, nello specifico l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS)». Sul punto il TAR ha inoltre precisato che con la sottoposizione alla vaccinazione di gran parte della popolazione nazionale e grazie alla diffusione capillare degli strumenti diagnostici è stato possibile reperire un’enorme mole di dati ed evidenze statistiche idonee ad attestare i profili di efficacia e di sicurezza dei vaccini contro il SARSCoV-2.

Svolta tale premessa, il Collegio ha precisato che sarebbe del tutto errato sostenere che i vaccini sarebbero inefficaci nel prevenire l’infezione da Covid, ma agirebbero solo sui relativi sintomi e che conseguentemente la loro somministrazione (o meno) andrebbe rimessa alla scelta dei privati. Invero, secondo quanto emerso dalle indagini sull’andamento dell’epidemia svolte dall’ISS (organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale), la profilassi vaccinale ha efficacia preventiva, oltre che dei sintomi della malattia, anche della trasmissione dell’infezione. Ad ogni modo, «l’interesse a prevenire lo sviluppo della malattia da Covid-19 in capo agli operatori sanitari, nel contesto dell’emergenza pandemica, assume un’indubbia valenza pubblicistica, giacché garantisce la continuità delle loro prestazioni professionali e, quindi, l’efficienza del servizio fondamentale cui presiedono».

Il Collegio ha ritenuto parimenti infondate le doglianze basate sulla asserita fase di “sperimentazione” nella quale verserebbero i vaccini ad oggi disponibili sul mercato. Sul punto si è invero ricordato che i prodotti oggi utilizzati nella campagna vaccinale sono stati regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata (c.d. CMA, Conditional marketing authorisation), disciplinata dall’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione. Ebbene, come ricordato dal Collegio, quest’ultima consiste in un’autorizzazione che può essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi, “a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari”. Il carattere condizionato dell’autorizzazione, tuttavia, non appare in alcun modo idoneo ad incidere sui profili di sicurezza del farmaco, imponendo unicamente al titolare di completare gli studi in corso sul medicinale o a condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio sia favorevole.

In ragione di ciò, il TAR ha confermato che «la “sperimentazione” dei vaccini si è dunque conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica e non è corretto affermare che la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata».

Con riguardo allo “scudo penale” introdotto dal legislatore in favore degli operatori sanitari somministranti, il Collegio ha precisato che tale misura non sia volta a compensare la “pericolosità” dei vaccini (come sostenuto dalla ricorrente), bensì, al contrario e più semplicemente, a scongiurare atteggiamenti di medicina difensiva che potrebbero ostacolare e ritardare la campagna vaccinale.

Il TAR ha ritenuto parimenti infondata la censura concernente la violazione del principio di ragionevolezza della misura della sospensione dall’attività lavorativa (nonché dalla conseguente percezione del reddito) in caso di accertata violazione dell’obbligo vaccinale nei confronti di un operatore sanitario. A tal proposito, il Collegio ha ritenuto che in riferimento al bilanciamento di interessi sotteso alla misura, «la primaria rilevanza del bene giuridico protetto, cioè la salute collettiva, giustifichi la temporanea compressione del diritto al lavoro del singolo che non voglia sottostare all’obbligo vaccinale: ogni libertà individuale trova infatti un limite nell’adempimento dei doveri solidaristici, imposti a ciascuno per il bene della comunità cui appartiene (art. 2 della Cost.)». D’altro canto, il Collegio ha altresì ricordato che la norma censurata (art. 4 del d.l. 44 del 2021) prevede comunque un meccanismo di esenzione dall’obbligo vaccinale, per i casi di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate.

Da ultimo, il TAR ha richiamato il recente intervento con cui la Corte Costituzionale (Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 5) ha enucleato le condizioni necessarie all’imposizione di una profilassi vaccinale obbligatoria. A tal proposito, secondo la Corte, «la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)». Ebbene, ad avviso del TAR, tutti e tre i presupposti enucleati dalla Corte sussisterebbero nella vicenda in esame.

Nello stesso senso, il Collegio ha inoltre richiamato la recente pronuncia della Corte EDU (sent. Grande Camera 8 aprile 2021, Vavřička and others v. the Czech Republic), che ha sancito la compatibilità con l’art. 8 della Convenzione dell’obbligo vaccinale infantile previsto dall’ordinamento della Repubblica Ceca quale condizione per l’ammissione al sistema educativo prescolare. Sul punto, in particolare, la Corte ha affermato che l’ingerenza nella vita privata, che l’obbligo vaccinale sicuramente realizza, può giustificarsi ove persegua un obiettivo legittimo ai sensi della Convenzione, senz’altro rinvenibile nella protezione della salute collettiva e in particolare di quella di chi si trovi in stato di particolare vulnerabilità.

La decisione in extenso è disponibile cliccando qui.

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